Finalmente Katia Kabanova arriva a Roma

Bella edizione di questo poco noto (in Italia) capolavoro del Novecento

Katia Kabanova (Foto Fabrizio Sansoni)
Katia Kabanova (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera
Katia Kabanova
18 Gennaio 2022 - 27 Gennaio 2022

Coprodotto con Royal Opera House di Londra, quest’allestimento di Katia Kabanova  doveva essere rappresentato a Roma già nel 2020 ma è stato posposto per il lockdown ed è arrivato all’Opera giusto in tempo per celebrare i cento anni (e due mesi) dalla prima assoluta di questo capolavoro di Leos Janacek e il “debutto” del nuovo sovrintendente del teatro, Francesco Giambrone.

L’opera è tratta da un dramma del 1859, L’uragano  di Ostrovskij, che è una denuncia dellapiccola borghesia di un villaggio russo, gretta, arretrata, bigotta e ipocrita e in definitiva disumana; la protagonista è una giovane donna, che non può e non vuole soffocare i suoi sentimenti e le sue pulsioni naturali, ma alla fine è schiacciata da quel mondo senza pietà e si getta nel Volga. Oltre sessant’anni dopo Janacek riscrisse questo dramma (il libretto è suo, con l’aiuto di un collaboratore) mettendovi di suo il realismo con cui dipinge il mondo contadino, il delicato senso della natura e l’attento scavo psicologico (che Milan Kundera definisce “furore psicologico”). Nelle azioni degli esseri umani vedeva la manifestazione di forze naturali ed elementari, ma era anche capace di profonda comprensione e reale compassione per i deboli e gli infelici, che sono i suoi eroi. Quel che si è qui molto schematicamente riassunto rende molto personali le opere del compositore ceco e fa del loro autore uno dei musicisti più grandi, originali e geniali dei primi decenni del secolo scorso.

Con Katia Kabanova  l’inglese Richard Jones si è guadagnato nel 2019 il prestigioso Premio Lawrence Oliver per la “migliore nuova produzione d’opera”. La mia personale opinione personale è che questa sua regia sia sottilmente sbagliata e travisi l’opera di Janacek. I personaggi sono rappresentati tutti fin dall’inizio come psicotici, si muovono rigidamente e quasi a scatti, sono privi di espressioni facciali come alienati, mentre al contrario Janacek li dipinge - anche quelli totalmente negativi - come esseri umani a tutto tondo, con un’ampia gamma di sentimenti (scusate il termine così antiquato) autentici, vividi, forti, in continua trasformazione nel corso dell’opera. Inoltre Jones elimina totalmente la natura, che è un altro e fondamentale “personaggio”: Kat’a ancora un attimo prima di morire evoca il canto degli uccelli e i vivaci colori dei fiori e la sua decisione di gettarsi nel grande fiume più che un suicidio è il ritorno alla grande madre natura per sfuggire all’orribile società in cui vive.

Jones riscatta la sua discutibile impostazione con una serie di intuizioni molto perspicaci, che talvolta sono un po’ troppo personali (come l’accenno a una relazione sessuale a sfondo un po’ sadomaso tra i “cattivi” Kabanicha e Dikoj) ma suggeriscono comunque delle possibili e interessanti letture di alcuni aspetti di quest’opera. Al di là di ogni perplessità questa regia ha una carta vincente ed è la perfezione della direzione dei cantanti-attori, perché nulla è lasciato al caso, ogni minimo gesto è attentamente calcolato ed ha un significato e gli interpreti le realizzano esattamente: questo si traduce in una forte teatralità e in una tensione continua, senza un attimo di respiro.

La musica di Janacek, anche quando non è perfettamente “servita” dalla regia, s’impone comunque, in virtù della sua stessa forza e dell’ottima realizzazione musicale. Il direttore David Robertson restituisce chiaramente ogni dettaglio orchestrale di questa complessa partitura, che evidentemente conosce bene: la sua è una lettura oggettiva, senza sentimentalismi, ma non si lascia sfuggire sentimenti, passioni e pulsioni di questi personaggi. A interpretarli in scena è un eccellente gruppo di cantanti, in maggioranza anglosassoni. La protagonista Corinna Winters è talvolta un po’ influenzata nel canto dalla fissità impostale dal regista, ma nei momenti culminanti può essere molto intensa. Il suo amante Boris e il marito Tichon si rivelano entrambi uomini privi di volontà, squallidi, vili, ipocriti: eppure quel Boris che alla fine non sta a sentire l’amore e il dolore di Kat’ia e non vede il momento di filarsela, è lo stesso che nel secondo atto aveva cantato insieme a lei lo splendido, estatico, sensuale duetto d’amore notturno. Quei due tipi non valgono un soldo ma i due tenori che l’interpretano sono di grande valore: Charles Workman e Julian Hubbard. La coppia giovane, che riesce a conquistarsi qualche isola di felicità in quel mondo di vipere, è formata dalla delicata Varvara di Carolyn Sproule e dal concreto e prosaico Kudrjas di Sam Furness, perfetti entrambi nei rispettivi personaggi. Susan Bickley ha dato grande statura drammatica a quel monumento alla cattiveria umana che è la suocera Kabanicha. Molto bene anche Stephen Richardson nella parte di Dikoj, l’altro “cattivo”, seppure in scala ridotta rispetto alla malvagità assoluta della Kabanicha.

Considerando l’opera certamente non popolare (non era mai stata rappresentata a Roma) e la riluttanza di molti ad andare a teatro in tempo di Covid, il pubblico era piuttosto numeroso e soprattutto ha dimostrato con calore di essere stato colpito da questo capolavoro dell’opera del Novecento.

 

 

 

 

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